Napoli: L'Italia e il regno unito, a ciascuno il suo Stampa
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NapoliNews - Cronaca
Scritto da Tina Taliercio   
Domenica 27 Novembre 2005 18:29

Napoli: L'Italia e il regno unito, a ciascuno il suo

Due episodi praticamente contemporanei vedono il nostro capoluogo di regione e l’intera nazione protagonisti nel Regno Unito. Come spesso accade, si tratta di situazioni dai contenuti alquanto contrapposti tra loro: in un caso, infatti, c’è l’assessore al turismo del Comune di Napoli, Luca Esposito, che presenta a Londra lo spot pubblicitario “Napoli, la vita è bella” e nell’altro c’è invece il noto settimanale The Economist che pubblica un articolo scritto da John Peet, al cui centro c’è il “…lungo, lento declino dell’Italia”. L’autore ha anche curato uno studio sull’Italia, dal titolo “Addio dolce vita”, presentato il 24 novembre scorso a Milano e pubblicato sempre dalla stessa autorevole rivista, secondo cui "…malgrado le sue tante attrattive, l'Italia è in un lungo e lento declino.

Rovesciare la tendenza richiederà più coraggio di quanto i suoi leader politici sembrano possedere".
Il lancio dello slogan sul capoluogo partenopeo ha avuto luogo presso lo stand del Comune di Napoli all'interno del WTO (World Travel Market) di Londra, l’importante manifestazione che costituisce uno dei punti di riferimento del mondo turistico mondiale. Palesi sono le intenzioni di questa operazione pubblicitaria: la promozione della città e conseguentemente della sua provincia in Italia e all'estero, offuscata dai gravi fatti di cronaca della periferia est della metropoli (fortunatamente non più verificatisi con la stessa frequenza negli ultimi mesi), oltre che dallo status economico dei conti pubblici e dalla politica schizoide dell’attuale esecutivo, che continua a raccontare un’Italia che non c’è (più), a ignorare la dicotomia sempre più ampia tra una classe di pochi eletti (in tutti i sensi) e la maggioranza del Paese che annaspa tra serie, pesanti e in alcuni casi drammatiche condizioni economico-finanziarie. Un Paese che si ritrova peraltro un governatore della Banca d’Italia discusso e discutibile, che in qualsiasi altro Stato dell’Unione Europea si sarebbe immediatamente dimesso o in ogni caso l’avrebbe fatto dopo le pressioni da parte delle forze politiche in carica e sarebbe stato sostituito da una figura più autorevole, portatrice di una ventata di novità, di una spinta al cambiamento. Questi elementi hanno spinto Esposito a promuovere una rinnovata immagine di Napoli, facendo leva sulle sue caratteristiche di sempre: la solarità, il senso dell’ospitalità, la musica e l’arte. Lo spot sarà anche trasmesso sulle numerose navi da crociera che fanno scalo a Napoli, per offrire l’invito ai turisti a bordo a visitare una città che tanto ha da raccontare e da offrire. E questa, in un momento in cui il turismo da crociera è in netta ascesa, è un’operazione caratterizzata dal giusto tempismo.
Accanto a “Napoli, la vita è bella” si affianca un progetto multimediale di interessante impatto: Radio Napoli, “…una iniziativa di grande valore turistico nata con la collaborazione del gruppo Radio Kiss e che diventerà la voce di Napoli nel mondo. Un canale 'dedicato', fino ad ora ascoltabile solo attraverso il sito internet che, dall'anno prossimo diventerà uno strumento dalle straordinarie potenzialità per incrementare il flusso turistico verso la città". Ci si augura però che Radio Napoli sappia fondere il classico con il moderno, che sia in grado, da un lato, di mantenere viva la tradizione, e dall’altro di mostrare il volto cosmopolita della città, con tutte le sue nuove tendenze, tutti gli stimoli culturali, sociali e artistici che sa generare. Solo così potrà evitare di diventare l’ennesimo esempio di comunicazione rivolta all’emigrante, figura oramai esistente solo nelle iconografie più banali, dalle connotazioni unicamente nostalgiche e vittimistiche. Nell’insieme, comunque, lo spot e la radio di imminente nascita sono un buon pacchetto di iniziative.
L’articolo e lo studio di John Peet hanno invece tutt’altra connotazione. Due sono le sfere principalmente prese in considerazione: gli standard scolastici ed il tessuto sociale, definiti entrambi “…in deterioramento”. I primi sono giudicati negativamente sulla base del fatto che nessuna Università compresa nella classifica delle prime novanta al mondo sia italiana. E questo, per un Paese che ha da secoli rappresentato una straordinaria concentrazione di cultura, con poli universitari di notevolissimo spessore, è un risultato drammatico, soprattutto se si smette di pensare in maniera qualunquistica agli atenei come a luoghi astratti dalla realtà, bensì li si inquadra per ciò che realmente sono, ossia la sede della formazione culturale e professionale della società. Con buona pace di Letizia Moratti e dei suoi scempi alla scuola pubblica.
Il tessuto sociale italiano viene invece analizzato basandosi sul fatto che il 40% degli italiani tra i 30 e i 34 anni è ancora in casa dei genitori. Non siamo nuovi a questo tipo di giudizio negativo da parte di diversi Paesi europei, tuttavia, se fino a qualche tempo fa il mancato “distacco” dei figli dalla famiglia di origine era oggettivamente imputabile all’italica mentalità, secondo cui i “mammoni” restavano quanto più possibile in famiglia per pigrizia e incapacità di organizzarsi una vita in proprio, oggi sarebbe scorretto, se non autolesionista, non riconoscere in questa non-scelta l’influenza notevole dell’aspetto economico. Allo stato attuale, se non si appartiene alla esigua classe degli eletti di cui sopra, e soprattutto se si è e si intende restare onesti, è IMPOSSIBILE pensare di potersi creare una vista indipendente intorno ai 18-19 anni, come invece si riesce a fare in moltissimi Stati dell’Unione. Come d’altronde è estremamente difficile farlo in generale prima dei 30 anni, sempre che i propri progetti trovino la loro attuazione, accompagnati da non poca fortuna, visto che la meritocrazia purtroppo resta in Italia un termine quasi sempre vuoto di significato, sovrastata come è dal clientelismo, dal nepotismo e da una mentalità così dura a morire, che vuole la raccomandazione quale pilastro portante della vita professionale e sociale. Un incomprensibile retaggio culturale, da cui il Paese non riesce o forse non vuole liberarsi, che si tramanda di generazione in generazione, a cominciare dall’educazione dei propri figli, a cui troppo spesso si insegna a considerare la scuola una perdita di tempo, utile solo al conseguimento (senza alcuno sforzo se non quello della furbizia) del titolo di (pseudo) studio.
Quanto cambierebbe la nostra condizione, se cominciassimo a educare i nostri figli all’amore per la conoscenza (piuttosto che per le… conoscenze), allo stimolo dell’intelligenza, alla voglia di raggiungere sempre nuovi traguardi solo grazie alle proprie capacità, all’autocritica e alla volontà di migliorarsi sempre più?

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Ultimo aggiornamento Giovedì 25 Aprile 2013 17:17